La geografia delle nostre battaglie non ha confini, e quello che accade dall'altra parte del mondo, prima o poi, avrà un riverbero anche qui, nell'Occidente dei diritti e delle libertà, che pur fragili e minacciati resistono comunque come garanzie per una convivenza civica e civile.

La geografia delle nostre battaglie non ha confini, e quello che accade dall'altra parte del mondo, prima o poi, avrà un riverbero anche qui, nell'Occidente dei diritti e delle libertà, che pur fragili e minacciati resistono comunque come garanzie per una convivenza civica e civile.

L'Afghanistan, oggi, è una frontiera umana che nonostante le distanze fisiche ci riguarda da vicino, come ci riguarda la drammatica condizione di violenza che subiscono le donne afgane, costrette in queste settimane ad un martirio brutale, e sottratte di colpo di tutte le micro-libertà faticosamente conquistate negli ultimi vent’anni. In un solo anno  - dalla firma degli accordi di Doha nel 2020 (il trattato di pace tra la fazione afghana dei Talebani e gli Stati Uniti d'America) -  sono state uccise ben 220 donne.

E se fino a qualche mese fa le ragazze rappresentavano il 40% degli studenti, oggi il diritto allo studio è appeso ad un filo debolissimo, con un ritorno alla situazione degli anni Novanta – quando le bambine potevano frequentare la scuola solo fino agli 8 anni – che ormai è una prospettiva più che concreta. Tutto questo, lo sappiamo, non finirà mai, o stenterà a finire.

Ma il punto è un altro, e non riguarda le note dinamiche dell'universo afgano, ma semmai il modo in cui tutte e tutti noi, cosiddetta opinione pubblica, ci posizioniamo in questa ferita della storia umana. Pochi giorni fa, nell’irrazionale centrifuga del dibattito mainstream, in molti e in molte gridavano all’indignazione per la mancata voce del mondo femminista rispetto alle drammatiche notizie da Kabul, evidenziando come venisse meno il lancio di un gesto di protesta simbolico che sostenesse il dramma del popolo afgano, quasi alla stregua del movimento Black Lives Matter.

Ovviamente poco importa che molte figure femminili (in politica, nell'associazionismo, nella cultura, nella società civile) si siano espresse sulla guerra in Afghanistan e sui diritti violati delle donne, o che ad esempio abbiano invitato a donare o che abbiano fatto appelli all’accoglienza. L'evidenza, in un'epoca come quella attuale, non conta: conta, invece, screditare a qualunque costo, creare un sentimento diffuso di rabbia e avversione, radicalizzare lo scontro fino ad usare in modo strumentale le drammatiche immagini delle donne afgane che lanciano i propri figli neonati oltre un filo spinato pur di sollevare una polemica contro le attiviste dei diritti femminili.

Sappiamo bene che in questo tempo di fake news l'evidenza ha poco valore, ma gioverebbe ricordare che nel nostro Paese ogni tre giorni viene commesso un femminicidio, e l’ultima donna uccisa per mano di un suo ex compagno, Vanessa Zappalà, di 26 anni, è morta nonostante avesse più volte denunciato il suo assassino per stalking.

Ecco, mentre piangiamo l’ennesima vittima della violenza machista - contro cui ogni giorno ci esprimiamo - non possiamo fare a meno di chiederci: dove sono, adesso, i cercatori di attiviste, o meglio ancora i cacciatori di chi si fa garante dei diritti delle minoranze? Dove, i detrattori di verità o chi, come spesso accade, dice: i veri problemi delle donne sono altri, non il catcalling, non il linguaggio di genere, non i minori!

A questo largo popolo di negazionisti della realtà o di fini alimentatori della rabbia (perché la rabbia genera click e ricavi) occorre opporsi in un solo modo: sostenendo i diritti e le vertenze dell'universo femminile senza simboli, retorica o slogan, ma anche lavorando con quell’approccio rasoterra proprio del mondo dell’associazionismo, e con quell’operatività quotidiana che, come nei Centri Antiviolenza, entra nel territorio creando connessioni e nuovi progetti.

L’universalità delle battaglie di genere si nutre di questi esempi, ed è in questa prospettiva che occorre essere vicine alle donne afgane. Senza paura, nel segno della libertà.

 

di Silvana Maniscalco

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